Accoglienza al Bambino Gesù, l'operato delle Suore Francescane della Croce del Libano

Un percorso quotidiano di vicinanza, assistenza e gratitudine. Suor Nada della Casa per ferie delle Suore Francescane della Croce del Libano ci racconta le giornate delle famiglie e dei bambini dell'Ospedale

La Fondazione Bambino Gesù porta avanti diversi progetti dedicati all’accoglienza delle famiglie che devono affrontare un periodo di cura. Tra le strutture che collaborano con la Fondazione, mettendo a disposizione vitto e alloggio per le famiglie spesso provenienti da Paesi lontani, c’è la “Casa per ferie” delle Suore Francescane della Croce del Libano.

Suor Nada ci racconta come le famiglie accolte trascorrono le loro giornate tra attesa, conforto e speranza, nella struttura situata nel quartiere di Monteverde a Roma.  

Cominciamo dal principio: quando e come comincia la collaborazione con l'Ospedale Bambino Gesù?

Comincia nel lontano 2013, quando ci iniziano a contattare per ospitare, a prezzi modici, genitori venuti da lontano cheavevano bambini ricoverati in Ospedale. Da allora è iniziato un crescente passaparola positivo tra genitori, fino ad arrivare nel 2017 a una collaborazione diretta con la Fondazione Bambino Gesù. 

Quali sono le caratteristiche della vostra struttura?

La nostra struttura è una "Casa per ferie" con carisma francescano, quindi accoglie tutti quelli che ne hanno bisogno, senza distinzione di credo e colore della pelle. Siamo tutti fratelli.
Ogni giorno accogliamo 15 famiglie, in un anno più o meno 200, dipende dalla loro permanenza. Ci sono famiglie che rimangono per settimane, altre per anni.

Com’è la vita dentro la vostra Casa per ferie? 

Con la maggior parte delle famiglie si crea una relazione di amicizia, fratellanza e specialmente con quelle giovani il legame è quasi familiare, come fossero figli e nipoti.
La nostra giornata è scandita da ritmi "veloci", perché le cose da fare sono tante. Si inizia con la Messa alle 7 del mattino ed è aperta a chiunque voglia partecipare. Dopo c'è la colazione e quindi inizia il via vai: chi deve andare in Ospedale e aspetta la navetta, chi porta i bimbi in giardino a giocare, altri restano in camera a colorare o a guardare la televisione. Alle 11 c'è il rito del caffè arabo che prepariamo per noi, il personale e le mamme che lo desiderano. In questo momento abbiamo mamme venezuelane, peruviane e della Guinea. 
Poi arriva l’ora del pranzo, del riposo e -  per noi - della preghiera; dopo iniziamo a preparare la cena. Dopo l’ultimo pasto della giornata, in genere restiamo un po’ insieme per chiedere se le visite sono andate bene, se per il giorno successivo hanno bisogno di qualcosa, come medicinali o pannolini. In questo modo, al mattino noi possiamo provvedere a telefonare all'URP e a soddisfare così i loro bisogni. Non c’è una regola, a volte le famiglie si ritirano nelle loro camere o trascorrono del tempo insieme, come preferiscono.
È sempre bello organizzare le feste di compleanno: allestiamo il refettorio con palloncini e striscioni e Suor Ferial prepara stuzzichini e specialità libanesi; infine, soprattutto per i bambini non può mancare la torta con le candeline. Prepariamo dei regalini, comprati o fatti a mano da noi, anche a Natale, Capodanno, Pasqua: tutte le famiglie partecipano alle feste e allo scambio di piccoli doni. 
Una delle cose più belle è vedere nascere le amicizie, se ne sono create e se ne creano ogni giorno. Si instaura tra le famiglie un supporto reciproco, che aiuta ad affrontare la lontananza dagli affetti, da altri figli, dalla loro nazione e dalle loro tradizioni, accomunate dallo stesso percorso terapeutico. Vedere mamme venezuelane che danno coraggio a una mamma peruviana o a una della Guinea o del Centro Africa e viceversa, ci inorgoglisce perché siamo riuscite ad amalgamare in un’unica "famiglia" nazionalità e credi religiosi diversi.

Quali sono, secondo voi, le maggiori difficoltà che i vostri ospiti si trovano ad affrontare, soprattutto all'inizio?

Le difficoltà variano a seconda della nazionalità e del credo religioso. Gli italiani si adattano quasi subito e lo stesso accade anche alle famiglie venezuelane. Con le famiglie arabe ci vuole un po’ di tempo in più, ma il fatto che noi parliamo l'arabo le fa sentire comprese e appoggiate. Per le famiglie del Centro Africa, che hanno una cultura molto diversa, è ancora più difficile adeguarsi allo stile di vita, ad alcune regole da rispettare e al cibo.  Ma poi, alla fine, riusciamo sempre a trovare un modo per essere insieme ad affrontare momenti spesso difficili. Al punto che anche quando vanno via rimaniamo in contatto con loro, ci telefoniamo, ci inviano video su WhatsApp per mostrarci la guarigione dei piccoli o i loro progressi. 

C’è una famiglia, in particolare, che vi è rimasta a cuore?

Questa domanda è difficile perché tutte le famiglie ci rimangono nel cuore, ci sarebbero tante storie, situazioni ed emozioni da raccontare.  
Un bambino di Napoli in attesa di trapianto e i suoi due giovanissimi genitori in preda alla disperazione: tutte le mattine pregavamo insieme, li incoraggiavamo a non perdere la speranza e la fede. Poi la sorellina risultò compatibile: quanto l’abbiamo coccolata! si è affezionata tantissimo a tutte noi, soprattutto a Suor Ferial. Il giorno del trapianto abbiamo celebrato la Messa e pregato, insieme al papà, affinché tutto andasse bene. Abbiamo vissuto da vicino la corsa in ospedale e il tempo sembrava non passare. Quando i genitori ci hanno chiamato, piangendo, per dirci che tutto era andato benissimo, abbiamo pianto anche noi: erano lacrime liberatorie, le loro e le nostre. Siamo in contatto con loro, il bimbo sta bene. Siamo andate a Napoli, a casa loro, ci hanno offerto la pizza e ci hanno accompagnato a vedere la città.

C’è poi la vicenda di Gabriel, un bimbo greco, trasportato appena nato in aereo al Bambino Gesù per un trapianto urgente. La mamma arrivò in Italia alcuni giorni dopo il parto. Anche in questo caso, i genitori erano due ragazzi, dal dolore non sapevano cosa fare e che dire. La lingua non ci permetteva di capirci, Suor Ferial riusciva a parlarci un po’ in inglese. Ci siamo armati dell'amore di Dio e abbiamo assistito la mamma, abbiamo dato coraggio a entrambi i genitori, invitandoli a non mollare la Fede, qualunque essa fosse. Gabriel uscì dall'ospedale, ma sempre monitorato in attesa di un donatore. Il padre, dopo mesi, dovette rientrare in Grecia per motivi di lavoro, lasciando mamma e bimbo da noi. Una notte la mamma ha bussato alle nostre porte in lacrime e in uno stato di panico perché era arrivata la telefonata che tutti aspettavamo: c'era un organo compatibile e Gabriel doveva subito raggiungere l'Ospedale. Abbiamo preparato insieme una borsa,chiamato il taxi e soprattutto l’abbiamo abbracciata e incoraggiata. Ora ci inviano foto, video e ci telefoniamo; alcuni giorni fa sono stati di nuovo nostri ospiti perché dovevano portare Gabriel all’Ospedale per dei controlli. È andato tutto bene. 

C’è poi la storia di Wafaa, bimba siriana che porta sulla sua pelle i segni e lo strazio della guerra. Noi la guerra l'abbiamo vissuta, alcune di noi ne portano i segni, perciò capivamo benissimo la condizione di Wafaa e della sua mamma. È stato un percorso difficilissimo, fatto di interventi al volto e gravi problemi psicologici e di adattamento. C’è voluta tanta pazienza e parlare la stessa lingua ha sicuramente aiutato. Dopo ogni intervento assistevamo la mamma per la somministrazione dei medicinali, la medicazione del volto, i colloqui con medici, infermieri e operatrici dell'URP. Gli abbiamo insegnato a muoversi per Monteverde, prendere il bus e a raggiungere l’Ospedale da sole. Wafaa si vergognava a farsi vedere, mangiava in camera. Con tanta pazienza, le abbiamo fatto capire che non c'era nessuna vergogna, erano altri a doversi vergognare, perché è la guerra ad essere vergognosa. Poi ha iniziato ad andare a scuola, la frequentava con piacere. Alla sua partenza i bagagli erano tanti e doveva lasciare qualcosa, ci eravamo accorti che aveva lasciato un violino, che lei aveva iniziato a suonare a scuola. Abbiamo insistito per farglielo portare e per continuare a suonarlo. Abbiamo saputo che continua a studiare violino, la musica le ha dato ispirazione e più sicurezza.

È un buon risultato, no? Per noi sì.

1/10/2020

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