Business e Solidarietà

Padre Giulio Albanese, invita tutti noi e, in particolare, imprenditori e dirigenti a riflettere sulle necessità e sulla possibilità di conciliare il conseguimento di risultati economici con la costruzione e il mantenimento di una società più giusta e solidale.


Padre Giulio Albanese, che i frequentatori del nostro sito ben conoscono, invita tutti noi e, in particolare, imprenditori e dirigenti a riflettere sulle necessità e sulla possibilità di conciliare il conseguimento di risultati economici con la costruzione e il mantenimento di una società più giusta e solidale. 
In realtà non si tratta di un semplice articolo ma di un breve saggio nel quale sono esaminate le azioni concrete per coniugare obiettivi economici e obiettivi sociali e di solidarietà. Siamo contenti di ospitare questo contributo nel nostro sito sia per ringraziare le numerose aziende che sostengono le iniziative solidali della Fondazione sia per sensibilizzare nuove imprese ad affiancarci nel sostegno dei progetti di sviluppo dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.


Business e Solidarietà

Nel corso degli anni, come missionario attento alle questioni sociali, mi è capitato frequentemente d’incontrare imprenditori e dirigenti di grandi aziende che intendevano e intendono tuttora riflettere sulla dimensione della solidarietà per contrastare l’esclusione sociale, nell’ambito delle loro attività strettamente professionali. Il quesito di fondo, con sfumature diverse, è sempre stato più o meno lo stesso. È possibile riconciliare il business con le istanze poste dal bene comune per una società più equa, giusta e solidale? 

Non v’è dubbio che l’avvento del sistema capitalistico ha determinato un graduale passaggio da una concezione morale inerente il «rapporto tra gli uomini» ad un’altra legata al «rapporto tra uomini e cose». Questo mutamento è essenziale per comprendere il nostro tempo, e segna, per così dire, il passaggio da un’etica prevalentemente deontologica all’etica utilitaristica. Si tratta di una vera e propria deriva che ha determinato quella cultura dello scarto stigmatizzata in più circostanze da papa Francesco.
Il dilemma che ci si pone, allora, da un punto di vista non solo economico, ma anche e soprattutto antropologico è sempre lo stesso: da una parte c’è il desiderio (dunque progresso e crescita) e dall’altra la soddisfazione (intesa come risposta ai bisogni personali e collettivi). Cosa scegliere? In effetti, tra questi due estremi c’è una sorta di dialettica e dunque non possiamo mai possederli entrambi pienamente. Sono due allora le strade per ridurre il divario tra, desiderio e soddisfazione, tra domanda ed offerta. Possiamo produrre più beni e incrementare il potere di acquisto della gente. E questa è la ricetta edonistica scelta sin dal tempo dei greci e dei romani. 
C’è poi il programma opposto, quello posto in tempi remoti dai filosofi stoici. Se vogliamo vivere bene occorre ridurre la domanda in modo che coincida con l’offerta. Viene in mente, quasi istintivamente, la figura di Diogene che, chiuso nella sua botte, era convinto che meno si ha, più si è liberi; una prospettiva fortemente condivisa dal cristianesimo e in particolare dalla corrente pauperista degli ordini mendicanti. In effetti, l’equazione «più e meglio» non funziona oggi alla prova dei fatti, considerando la progressiva divaricazione tra ricchi e poveri determinata dalla globalizzazione. D’altra parte, è proprio il diffondersi oggi dell’etica utilitaristica e dunque fortemente pragmatica, che ha favorito il dominio delle categorie economiche nella riflessione politica e sociale dei Paesi industrializzati, ma anche di quelli emergenti. Con il risultato che si è affermata una cultura fortemente speculativa, all’insegna della massimizzazione del profitto. Ecco perché è necessario un serio discernimento che tenga conto innanzitutto e soprattutto della sacrosanta dignità della persona umana. Anche perché, come scrive l’economista ceco Tomas Sedlacek, anche Dio si riposò il settimo giorno, ma non perché fosse stanco, ma perché era soddisfatto della sua creazione.

Se da una parte è giusto che l’economia si concentri sull’efficienza e l’utilità, dall’altra è scorretto che tutto il resto si riduca all’economia, e quindi a un discorso sull’efficienza e l’utilità. Non si tratta certo di tornare ad un’etica medievale, con l’intera vita sociale, e quindi anche l’economia, sottomesse alla morale religiosa. Lo stesso Adam Smith, fondatore della moderna economia, ci ha insegnato che non esiste economia senza valori morali: una società funziona, infatti, se poggia su tre pilastri: moralità, concorrenza e regole. Nel momento in cui, invece, si fonda sull’egoismo amorale, essa sprofonda nell’anarchia. Si tratta perciò di fare rientrare «il movente del profitto» entro il suo alveo ragionevole, in quanto una decisione economica è sempre e comunque una decisione morale. L’etica, insomma, deve essere (usiamo il condizionale perché purtroppo ciò spesso non avviene) il fulcro dell’economia. 

Non è l’arricchimento in sé, dunque, ad essere antisociale, ma la sua elevazione a fine ultimo e unico. In questa prospettiva, l’aspetto più ambiguo e sospetto dell’etica utilitarista sta proprio nella sua presunta e apparente neutralità, nel suo ricondursi a semplice calcolo, su cui tutti dovrebbero necessariamente assentire. Ecco perché la responsabilità morale e l’esigenza della virtù riguardano ogni soggetto agente, consapevole della possibilità di influire sulla realtà per migliorarla, poiché non esistono deroghe che ci sollevano dalla responsabilità per le nostre azioni egoistiche. Da questo punto di vista, la progressiva crescita delle diseguaglianze in Italia e nel mondo, a seguito soprattutto della spregiudicata finanziarizzazione dell’economia, è sintomatica del primato del «dio quattrino» sulle persone create ad immagine e somiglianza di Dio. 


Sussidiarietà, Solidarietà e Bene Comune


A questo punto proviamo allora ad identificare i tratti fisiognomici, dal punto di vista motivazionale, di un imprenditore o dirigente che dir si voglia che ha davvero a cuore il bene comune, con uno spirito responsabile e solidale. Qui le parole chiave sono tre: sussidiarietà, solidarietà e bene comune. Occorre infatti rispondere alle istanze di quelle persone – e tra essi certamente gli imprenditori e i dirigenti - che vorrebbero fare qualcosa per il proprio Paese ma non sanno da dove cominciare. Partiamo dalla sussidiarietà, vale a dire dalla partecipazione al bene comune, da cui scaturisce la corresponsabilità. Oggi esiste un modo per esprimere il proprio senso di cittadinanza che fino a poco tempo fa sembrava essere irrealizzabile. E questo perché l’idea che un semplice cittadino potesse avere la voglia e le capacità di prendersi cura dei beni comuni insieme con l’amministrazione era considerata del tutto assurda e fuori luogo. Oggi invece questo indirizzo decisamente innovativo sta scritto nella Costituzione italiana, nell’ultimo comma dell’art. 118 e si chiama giustappunto sussidiarietà. 

La buona notizia, per così dire, è che si è preso coscienza nel dettato costituzionale che le persone sono portatrici non solo di bisogni, ma anche di capacità le quali, se messe a disposizione della comunità, possono contribuire decisamente a rispondere, insieme con le amministrazioni pubbliche, alle istanze collettive. Ecco che allora, la dimensione della sussidiarietà acquista un significato tutto particolare, nella consapevolezza che esiste un destino comune e che tutti, davvero tutti, debbono sentirsi responsabili della Res publica. Si tratta pertanto di prendere coscienza dell’importanza dell’azione dei singoli come inesauribile risorsa che può incidere fattivamente sul corso degli eventi e sul miglioramento della vita. 
Ma la sussidiarietà non può prescindere dalla solidarietà. È interessante ricordare che l’etimologia della parola solidarietà esprime una forte concretezza che forse a volte viene diluita dal nostro linguaggio, ahimè troppe volte superficiale e genericista. Pagare in solidum, alla fine del IV secolo, indicava l'obbligazione da parte di un individuo, appartenente a un gruppo di debitori, di pagare integralmente il debito. Ed è proprio per questo motivo che è dalla parola latina solidum che deriva anche il nostro soldo. Al tempo dei Romani si trattava di una moneta, originariamente d'oro, il cui valore sarebbe dovuto rimanere stabile nel tempo. Ma fu solo a partire dal 1789, in Francia, che la solidarietà (solidarité) ha assunto la valenza odierna in quanto sentimento di fratellanza che devono provare tra di loro i cittadini di una stessa nazione libera e democratica. Oggi, il valore della solidarietà nel villaggio globale si è ampliato al punto tale da includere l'intera umanità, senza distinzioni di razze, di culture o di fedi politiche o religiose. Per questo assistiamo e partecipiamo a vere e proprie gare di solidarietà a favore di coloro che vengono colpiti da sventure o altre calamità. La solidarietà così intesa, esprime in concreto il sentimento di fraternità universale in cui si traducono varie forme di carità cristiana. Non v’è dubbio però che la solidarietà sia stata spesso fraintesa da molti e soprattutto strumentalizzata da altri. Se da una parte, infatti, l’azione umanitaria è troppo spesso motivata dai sentimenti paternalistici del ricco Epulone che guardava il povero Lazzaro dall’alto verso il basso, dall’altra il solo utilizzo della parola solidarietà, serve ad alcuni come scudo per celare interessi di parte.


Detto questo è evidente che il terreno sul quale sul quale si misurano la solidarietà e la sussidiarietà è il cosiddetto «Bene Comune» cioè ciò che è condiviso e giova all’intera collettività. Esso, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti, ma costituisce un punto di vista diverso e più alto, in cui si va oltre il gioco delle parti e si punta sulla realizzazione di quel tutto che è la realizzazione integrale, della persona umana, per quanto essa sia parte integrante e dipenda dalla collettività.


Per passare dalle parole ai fatti…

Viene allora spontaneo domandarsi: cosa fare concretamente all’interno di un’azienda? Dando naturalmente per scontato che vengono comunque salvaguardati al suo interno i diritti dei lavoratori nel rispetto delle regole sancite dalla nostra Costituzione e se si è credenti dalla Dottrina Sociale della Chiesa.


1) Cause Related Marketing (Crm). Si tratta di una vera e propria operazione di “marketing” che consiste nel promuovere un determinato prodotto o un servizio d’impresa abbinandolo al marchio di un’organizzazione «no profit», con l’intento di ricavarne un reciproco beneficio. Il Crm si sta dimostrando alla prova dei fatti sempre più una strategia vincente, per le piccole e grandi aziende, posizionandole rispetto ai consumatori, come realtà imprenditoriali attente al sociale. Ma è davvero possibile coniugare «no profit» e «marketing» con l’obiettivo dichiarato di finanziare iniziative solidaristiche? Nei moderni sistemi economici occidentali l'incontro tra domanda e offerta di beni è spesso condizionato da un eccesso di offerta e da una relativa stagnazione della domanda. In altre parole: è relativamente facile produrre, è molto più complesso incontrare l'interesse del mercato e quindi vendere soprattutto in una fase congiunturale come quella che sta attraversando il nostro Paese. Da ciò deriva l’esigenza, per molte aziende, di mantenere la propria competitività adottando un «orientamento solidale», nella consapevolezza però che solo il mercato può garantire la loro esistenza nel tempo. La strategia del Crm si è rivelata vincente sia negli Stati Uniti ma anche in alcuni Paesi europei tra cui l’Italia. La convinzione è che, se realizzata in modo eticamente corretto e non opportunistico, la campagna di Crm arrechi benefici d’immagine all’impresa, che si distingue per la sua attenzione al sociale, e all’organizzazione «no profit» che raccoglie fondi per le proprie attività filantropiche o missionarie. Recenti indagini di mercato confermano decisamente questo indirizzo: il 75 per cento degli intervistati afferma di preferire le imprese legate a cause nobili, anche quando i prodotti e servizi dovessero essere più cari di quelli della concorrenza. Questo strumento, comunque, per risultare efficiente, a detta degli esperti, deve però qualificarsi come scelta strategica d’impresa, non limitando l’impegno aziendale a operazioni promozionali saltuarie e di breve periodo, per intenderci «una tantum» Il tema è certamente di grande interesse ed esige una riflessione attenta soprattutto da parte di coloro che sono direttamente impegnati a livello di volontariato in Italia e all’estero. Anzitutto si pone la questione della trasparenza da parte delle aziende, alcune delle quali operano in settori quantomeno controversi nell’ambito più generale di quei processi commerciali planetari che vengono riassunti con il termine di globalizzazione. Ma non solo. Se da una parte è vero che l’impresa può fare del bene, dall’altra è opportuno ricordare che la campagna di Crm non può essere affatto considerata da parte delle imprese come “un’azione caritativa”, secondo la logica evangelica, mancando il presupposto fondamentale, rappresentato dalla gratuità. Sarebbe poi fuorviante se tra la gente comune si diffondesse la convinzione che acquistando un determinato prodotto si ottempera al precetto dell’amore in quanto, l’atto caritativo per essere tale deve includere una rinuncia personale o comunitaria, attuando l’intenzione di “farsi prossimo” nella condivisione.

2) La Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), nella letteratura anglosassone corporate social responsibility (CSR) è, l’ambito riguardante le implicazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. La RSI è stata definita dal Libro Verde della Commissione Europea del 2001 come «un’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate». Ha origini culturali legate agli anni ‘70 con la diffusione dei temi di responsabilità sociale in molti contesti. Oggi, in quasi tutto il mondo industrializzato si possono trovare luoghi, centri studio ed esperienze di RSI che ancor faticano di fronte a decenni di edonismo (massimo utile nel più breve termine) ed al disinteresse diffuso di ciò che accade con gli investimenti oltre mare. La finanziarizzazione dell’economia è guidata da un solo principio: la massimizzazione del rendimento del capitale investito. Se gli investitori scoprono che una grande impresa forestale offre rendimenti pari o superiori al 15% sul capitale procederà all’acquisto di titoli di quell’impresa nonostante sia impegnata nella deforestazione dell’Amazzonia dalla quale tutti noi traiamo ossigeno. La Responsabilità Sociale d’Impresa, ancor’oggi su base volontaristica, vorrebbe porre un freno a questa deregulation. Occorre, comunque, essere consapevoli che, in campo etico, standard e codici sono armi a doppio taglio. Mi rifaccio alle parole di Zygmunt Bauman. «Essere morali significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali siano buone e quali cattive. [...] Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni…» Se condividiamo l’idea che essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni, è ovvio che non dobbiamo assolutizzare l’adozione di uno «standard etico» quasi fosse un toccasana ai problemi.  Potrà avere effetti positivi se la situazione è davvero grave, vale a dire se i soggetti decisori hanno davvero dimenticato di aver mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male, abdicando completamente alla propria funzione morale. Ma da solo lo standard non basta.  La responsabilità sociale d’impresa (Rsi) si ridurrà ad una scatola vuota se non essa non è accompagnata dalla crescita morale degli individui che compongono l’organizzazione. Evitare soprattutto, nel campo dell’etica, la consuetudine routinaria e la burocratizzazione anestetizzante delle «circolari dalla direzione». Occorre in sostanza che la responsabilità sociale d’impresa non si configuri come un sostituto della responsabilità morale dei membri dell’impresa stessa. Sarebbe, inoltre, presuntuoso e fallace ritenere che l’etica degli affari si configuri come un ricettario di norme che altri (ovvero soggetti diversi da coloro che le hanno pensate) dovrebbero seguire. È invece più appropriato identificare nell’etica degli affari un’indagine ricostruttiva di ciò che avviene effettivamente nel mondo del lavoro, nel costante tentativo di coglierne il significato ottimizzando i processi per il bene della persona, dell’impresa e della comunità sociale.

3) Social Business. L’impresa di social business è un’azienda economicamente auto-sufficiente che vende sul mercato prodotti e/o servizi, proprio come tutte le aziende, ma a differenza delle aziende comuni ha lo scopo non di massimizzare il profitto, ma di risolvere un problema sociale; gli azionisti non possono ricevere gli utili e i collaboratori sono retribuiti a prezzi di mercato. Il modello è stato proposto dal premio Nobel Yunus ed è frutto dell’esperienza trentennale con la Grameen Bank (con la quale ha vinto il Nobel per la pace) e di decine di altri social business che ha fondato. La diversità tra le nuove imprese con finalità sociali e le imprese tradizionali tese verso il massimo profitto risiede sostanzialmente negli obiettivi che entrambe si prefiggono: i nuovi tipi di imprese mirano sostanzialmente a produrre un mutamento positivo nella condizione sociale delle persone con cui entrano in contatto. Queste imprese possono anche produrre un profitto, ma gli investitori che le finanziano dovranno solo tendere al recupero, in un periodo di tempo variabile, di un ammontare equivalente al capitale originariamente investito. Non si tratta quindi di organizzazioni no profit o non governative che fanno affidamento soprattutto su donazioni, aiuti governativi e contributi, ma di vere e proprie aziende che pur perseguendo un obiettivo sociale, devono anche recuperare il capitale investito. Quindi un’impresa con finalità sociali deve essere concepita e condotta come una vera e propria azienda, con prodotti, servizi, clienti e mercati, spese e ricavi, ma con l’imperativo del vantaggio sociale al posto di quello della massimizzazione dei profitti. Invece di cercare di accumulare il livello più alto possibile di profitti finanziari a solo beneficio degli investitori, l’impresa con finalità sociali cerca di raggiungere un obiettivo sociale. 


A questo punto cosa dire? Apparentemente sembra esserci l’imbarazzo della scelta, anche se poi la gratuità, cristianamente parlando, non è merce di scambio e soprattutto si fonda sulla concezione di un benessere non esclusivo, ma condiviso. Sì! Quello della «Casa Comune» tanto cara a papa Francesco. Ecco perché un’azienda/impresa che intende partecipare alle iniziative solidali della Fondazione Bambino Gesù non può che accrescere il proprio standard di moralità e dunque di successo.
    
 


 

13/7/2021

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